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Si può prevedere una prevenzione integrata dell’ambiente… #finsubito prestito immediato


Urbino, 5 Nov – Come mostrato anche dalle vicende connesse all’Ilva, la stretta connessione tra lavoro, salute e ambiente ha messo in discussione il fondamento della distinzione tra “ambiente di lavoro” e “ambiente esterno” all’impresa: “i rischi lavorativi possano essere esportati all’esterno dell’impresa, impattando sulla salute della popolazione e sulla salubrità dell’ambiente circostante”.

 

Inoltre, come ci ha mostrato la pandemia da Covid-19, è possibile che “un rischio esogeno, penetrando nei luoghi di lavoro, incida sulla salute dei lavoratori all’interno dell’impresa”. E lo stesso rischio, “aggravato dalle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, potrebbe ripercuotersi nuovamente all’esterno dell’impresa, fornendo così un chiaro esempio di quell’idea di ‘salute circolare’ elaborata dalla scienza medica e fatta propria dagli studiosi del diritto della salute e della sicurezza sul lavoro”.

 

A soffermarsi, con queste parole sulla commistione tra “interno” ed “esterno” nel mondo del lavoro, è un contributo/saggio pubblicato sul numero 1/2024 di “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista online dell’Osservatorio Olympus dell’ Università degli Studi di Urbino.

 

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In “La tutela dell’ambiente interno ed esterno all’impresa. Il fondamento giuridico e gli strumenti per una prevenzione integrata”, a cura di Francesca Grasso (assegnista di ricerca in Diritto del lavoro nell’Università di Pisa), si affronta – come indica l’abstract del saggio – il tema del rapporto tra la tutela dell’ambiente di lavoro e la tutela dell’ambiente esterno all’impresa. Si propone “una riflessione sull’opportunità di ridefinire le coordinate dell’obbligo di sicurezza nonché sul fondamento giuridico e sui possibili strumenti per un sistema di prevenzione integrata tra ambiente interno ed esterno all’impresa”. In particolare la riflessione si concentra “sull’analisi della disciplina interna in materia di salute e sicurezza sul lavoro”. E dopo aver esaminato “le criticità di una rilettura dell’art. 2087 c.c. in chiave di sostenibilità, il contributo approfondisce il significato da attribuire ai riferimenti all’ambiente esterno presenti negli artt. 2, lett. n. e 18, lett. q, del d.lgs. n. 81/2008, da interpretare alla luce del nuovo art. 41 Cost. e dell’art. 2086 c.c.”. Il saggio valorizza poi – e su questo ci soffermeremo – le potenzialità dei modelli organizzativi e dei “metodi partecipativi nell’organizzazione dei processi produttivi dell’impresa, attraverso il coinvolgimento dei lavoratori, delle loro rappresentanze e degli altri stakeholders”.

 

Il saggio rappresenta una rielaborazione aggiornata della relazione discussa in occasione del seminario “Salute e sicurezza, rischi emergenti e nuovi ambienti di lavoro” il 30 novembre 2023 presso l’Università degli studi di Roma Tre.

 

Nel presentare il contributo l’articolo si sofferma sui seguenti argomenti:

 

Smaterializzazione del luogo di lavoro e ambiente interno ed esterno

Sempre per sottolineare la connessione tra “ambiente di lavoro” e “ambiente esterno” all’impresa, si ricorda la crescente frammentazione dell’impresa, un’impresa spesso “disgregata sul territorio e sempre più frequentemente delocalizzata in paesi esteri in via di sviluppo e con uno scarso livello di protezione normativa, nei quali si concentrano produzioni ad alta intensità di capitale che spesso comportano gravi violazioni ambientali e preoccupanti forme di sfruttamento del lavoro”.

 

Inoltre, il fatto che non si possa avere una netta separazione dei due contesti, interno e esterno, è dimostrato anche dai processi di digitalizzazione della produzione e “dalla conseguente dematerializzazione degli spazi di lavoro, per cui sempre più spesso è l’ambiente esterno a divenire contenitore della prestazione di lavoro”.

Ad esempio è il caso dell’attività lavorativa “dei ciclofattorini – il cui luogo di lavoro coincide con il contesto urbano – ma anche delle prestazioni svolte in modalità agile, del lavoro dei nomadi digitali (che utilizzano tecnologie digitali in remoto per vivere e lavorare in diverse parti del mondo), e dei crowdworkers (lavorano tramite piattaforme digitali), “rispetto alle quali lo spazio fisico dell’azienda si dissolve e si espande verso uno spazio digitale, fino ad arrivare, in caso di lavoro prestato nel metaverso, ad una progressiva polverizzazione dei confini tra reale e virtuale”.

 

E se oggi ha meno senso distinguere rigidamente tra ambienti di vita e ambienti di lavoro, è lecito “interrogarsi sull’opportunità di ridefinire le coordinate dell’obbligo di sicurezza, rafforzandone la matrice prevenzionale e ampliandone l’ambito applicativo, in modo da considerare non solo i rischi per la salute dei lavoratori, ma anche quelli per l’ambiente esterno e l’integrità della popolazione”.

 

I modelli organizzativi e la tutela dell’ambiente interno ed esterno

Rimandando alle varie parti del saggio che si soffermano sulla disciplina interna in materia di salute e sicurezza sul lavoro, veniamo alla parte in cui si fa riferimento alla possibilità di individuare modelli organizzativi in grado di garantire una tutela integrata dell’ambiente, interno ed esterno all’impresa.

 

Si indica, infatti, che se la via da prediligere deve essere quella di predisporre “assetti organizzativi e produttivi orientati, sin dalla concezione dell’impresa, al rispetto della salute dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente esterno”, occorre verificare “quali possano essere gli strumenti attraverso i quali attuare una prevenzione integrata”.

E risultano di particolare interesse le proposte dottrinali che individuano nei modelli di organizzazione e gestione – art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 e art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 – “i meccanismi attraverso i quali garantire una gestione integrata delle problematiche relative all’ambiente interno ed esterno all’impresa”.

 

A questo proposito si ricorda che tra i reati presupposto indicati nel catalogo di cui al Decreto legislativo n. 231/2001 “compaiono sia i reati commessi con violazione della normativa prevenzionistica (art. 25-septies) e sia i reati ambientali (art. 25-undecies)”. Ed è, dunque, evidente che, “attraverso lo strumento dei modelli di organizzazione e gestione l’impresa possa gestire la politica per la sicurezza sul lavoro e quella per la tutela dell’ambiente attraverso il medesimo approccio metodologico, fondato sulla prevenzione sistemica, programmata ed organizzata, in modo da orientare l’organizzazione produttiva alla protezione di salute e ambiente”.

 

Tuttavia, a tal fine – continua l’autore – “potrebbe essere implementata la dimensione partecipativa delle rappresentanze dei lavoratori”.

 

La tutela integrata, la dimensione partecipativa e gli stakeholders

Riguardo ad una simile prospettiva partecipativa, ci si chiede se effettivamente le rappresentanze sindacali possano essere in grado di interloquire nella costruzione di un sistema di gestione integrata a tutela dell’ambiente interno ed esterno all’impresa.

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Tuttavia in questa direzione già si muovono alcune esperienze della contrattazione collettiva e merita di essere ricordata “la scelta di istituire, in diversi settori, la figura del Rappresentante dei lavoratori per la salute, la sicurezza e l’ambiente, che subentra nelle funzioni attribuite al Rappresentante per la sicurezza, e al quale sono riconosciute prerogative consultive, informative e formative in materia di politiche e investimenti ambientali, conversione sostenibile degli ambienti di lavoro e dei processi produttivi, nonché la gestione dei rapporti con il territorio e le autonomie locali, nell’ambito di un’attività da svolgere in coordinamento con le altre istituzioni del sistema di relazioni industriali”.

 

Si segnalano poi “alcuni processi negoziali tesi alla promozione di sistemi di gestione integrata per la sicurezza, la salute e l’ambiente”, come quelli che hanno portato, ad esempio, all’elaborazione di “sistemi di relazioni industriali improntati alla partecipazione e alla trasparenza dei processi decisionali”, all’istituzione di organismi bilaterali e, infine, alla predisposizione di “specifici programmi”.

 

Si segnala poi che l’invito a “ricorrere al dialogo sociale, alla contrattazione collettiva e a metodi partecipativi nell’organizzazione dei processi produttivi, attraverso l’informazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, perviene anche dalle politiche del lavoro a livello eurounitario”. Si fa riferimento, in particolare, alla futura direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità che “prevede un obbligo di vigilanza dell’impresa leader lungo l’intera catena di approvvigionamento globale e il riconoscimento della responsabilità civile della stessa impresa qualora ometta di identificare, valutare, prevenire e correggere gli effetti negativi che possono derivare per i diritti umani (compresi i diritti dei lavoratori) e per l’ambiente dalla sua attività e da quella dei propri partner commerciali”.

 

E nell’ambito di tali processi di due diligence (diligenza dovuta) si indica che la partecipazione di diversi stakeholders (“rappresentanti dei sindacati e dei lavoratori in primis, dipendenti delle società, consumatori, gruppi, comunità o soggetti i cui interessi potrebbero essere lesi dalle attività delle imprese coinvolte”) assume “un ruolo cruciale, sia nella fase di raccolta delle informazioni necessarie sugli impatti negativi, potenziali ed effettivi, dell’attività delle imprese operanti lungo la catena di fornitura e sia nella fase di elaborazione di piani d’azione adeguati per prevenire tali impatti e fornire riparazione nel caso in cui si verifichino”.

 

Si conclude poi indicando che alla valorizzazione della contrattazione collettiva nei processi decisionali dell’impresa, potrebbe poi “affiancarsi l’apertura dei meccanismi della rappresentanza degli interessi anche a soggetti esterni all’azienda”.

Se l’obiettivo è quello di “predisporre modelli di gestione sostenibilmente orientati, da introiettare nella strategia del datore di lavoro sin dalla concezione della propria organizzazione, la partecipazione dei diversi stakeholders esterni all’impresa (comunità territoriali, istituzioni o associazioni ambientaliste) può essere estremamente utile, sia nella fase di mappatura e valutazione dei rischi e sia nella fase di definizione ed attuazione degli assetti organizzativi adeguati”.

 

Solo in tal modo – indica, infine, l’autore – “sarà possibile garantire una transizione ecologica ‘giusta’, che tenga conto delle ricadute sociali ed economiche di un nuovo modello di sviluppo sostenibile”.

 

Rimandiamo, in conclusione, alla lettura integrale del saggio che si sofferma su vari altri aspetti:

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  • sicurezza sul lavoro, salute e ambiente nel contesto internazionale, eurounitario e nell’ordinamento nazionale
  • l’art. 2087 c.c. e la tutela dell’ambiente esterno nel d.lgs. n. 81/2008
  • l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità
  • rilettura delle norme del d.lgs. n. 81/2008 alla luce dell’art. 41 Cost. e dell’art. 2086 c.c.
  • strumenti per una prevenzione integrata a tutela dell’ambiente interno ed esterno

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:

Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “La tutela dell’ambiente interno ed esterno all’impresa. Il fondamento giuridico e gli strumenti per una prevenzione integrata”, a cura di Francesca Grasso (assegnista di ricerca in Diritto del lavoro nell’Università di Pisa), Diritto della Sicurezza sul Lavoro (DSL) n. 1/2024. 



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