Un cane che si morde la coda. La crisi del settore automotive sembra destinata a peggiorare, a meno che non si interrompa bruscamente con qualche idea geniale il loop che si è venuto a creare. Di che cosa stiamo parlando? Della crisi del comparto auto mondiale scatenata dal passaggio all’elettrico, un problema che inizia a farsi sentire pesantemente anche in Germania, nazione che da sempre ha un legame molto forte con il settore.
Quali contraccolpi avrà la crisi di Volkswagen in Italia? C’è chi prevede addirittura un “cataclisma occupazionale”. Quello che è certo è che il taglio del Fondo automotive e la fine della cassa integrazione per molte aziende di Torino e dintorni saranno un duro colpo per le aziende del settore ma soprattutto per i lavoratori del comparto, indotto compreso. Andiamo per ordine, partendo dalla Cina.
L’effetto traino della Cina è finito
In Cina gli aiuti di Stato alle case automobilistiche nazionali per fronteggiare il passaggio all’elettrico sono stati consistenti, cosa che in Europa non è stato possibile fare. Così come le fusioni e le acquisizioni per creare grandi gruppi in grado di affrontare al meglio le economie di scala. Poi c’è la leadership sulla produzione di batterie per le auto elettriche, dalle quali l’Europa cerca di affrancarsi sapendo però che ci vorrà del tempo. Tutto questo ha portato gli stabilimenti cinesi a produrre molte auto, soprattutto e-car, pensando di poterle vendere anche in Europa e negli Stati Uniti. Questo progetto però si è improvvisamente scontrato con l’imposizione dei dazi Ue sulle auto elettriche made in China (si passa in media dal 10 per cento al 45%). Situazione che apre le porte a una possibile guerra commerciale con l’Europa, anche se poi i dazi sono stati imposti per difendere i 14 milioni di posti di lavoro dell’industria europea.
Il cortocircuito che attanaglia il comparto auto mondiale va cercato non solo nella debole domanda di auto elettriche in Ue per problemi che conosciamo bene (prezzi troppo alti, ridotta autonomia, colonnine di ricarica ancora poco diffuse, etc..), ma anche nella riduzione dell’effetto trainante della Cina sull’industria automobilistica europea, peraltro già saturo di auto proprie. Se anche la domanda cinese di auto europee dovesse venire meno, saremmo davvero in una tempesta perfetta. Il colpo di grazia però potrebbe arrivare dall’America, visto che Trump ha minacciato un aumento delle tariffe del 10%-20% su tutte le importazioni dall’Ue.
La crisi (in numeri) di Volkswagen
Gli effetti di tutto questo iniziano a manifestarsi in modo concreto. Volkswagen potrebbe chiudere tre stabilimenti in Germania per la prima volta nei suoi 87 anni di storia. Il colosso dell’auto tedesco è solo la prima casa automobilistica europea ad accusare il colpo. Sta soffrendo per il calo delle vendite in Europa ma soprattutto per quelle in Cina, che rappresentano un terzo del totale. Nel terzo trimestre dell’anno si è registrato un crollo così forte, -15 per cento, da affossare le vendite totali del gruppo (-7 per cento). In particolare sono i veicoli di alta gamma a registrare i cali più significativi, Porsche e Audi, quelli più redditizi insomma. Ed è anche per questo che l’utile di Volkswagen nel 3° trimestre ha registrato un tonfo del 64% su base annua a 1,58 miliardi di euro. Numeri in calo anche sui nove mesi del 2024 (vedi foto sotto). Confermate invece le stime di profitto per il 2024, abbassate più volte nel corso dell’anno, nella speranza che il “taglio dei costi inevitabile” di 2,2 miliardi di euro sortisca i primi effetti.
Oltre alla possibile chiusura di tre stabilimenti tedeschi si prospettano anche una marea di licenziamenti, decine di migliaia di tagli di posti di lavoro tra i 120mila dipendenti Volkswagen in Germania, “un’urgente necessità” secondo l’azienda. Chi scamperà ai licenziamenti potrebbe ritrovarsi con il 10% dello stipendio in meno, che per la casa automobilistica tedesca si tradurrebbe in un risparmio di quasi 800 milioni di euro l’anno. Intanto uno studio della associazione VDA ha pronosticato 140mila licenziamenti nel settore dell’auto in Germania entro il 2035. E mentre i lavoratori protestano Audi ha annunciato che a febbraio sbarrerà le porte della fabbrica di Bruxelles, quella che produce i Suv elettrici di lusso, mentre Continental ha deciso di uscire dal settore dei ricambi auto per concentrarsi sugli pneumatici tagliando migliaia di posti di lavoro. E in Italia?
L’Italia si sta deindustrializzando
La situazione in Italia non va meglio. Se prima il nostro Paese era conosciuto nel mondo anche per l’industria dell’auto, pensiamo non solo a Fiat ma anche a Ferrari, Maserati e Pininfarina, oggi ci ritroviamo con la speranza che arrivi un cavaliere bianco cinese che ci salvi da una crisi epocale nata dal passaggio, più o meno forzato, all’elettrico.
La crisi di Volkswagen, infatti, potrebbe pesare con un macigno sulle piccole e medie imprese manifatturiere italiane, quelle che contano soprattutto sull’export verso la Germania non potendo più sperare in Stellantis. Perché il nostro Paese da produttore di auto è diventato piano piano solo un produttore di pezzi per altri. In poche parole l’Italia si sta deindustrializzando, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro.
Urso ha fallito, intervenga Meloni
Oltre alla crisi del settore auto a livello europeo, l’Italia si ritrova a che fare anche con “il disimpegno di Stellantis, con l’emblematico (e irrispettoso) rifiuto del presidente Elkann di presentarsi in Parlamento. Esaurimento delle risorse per gli ammortizzatori sociali. Fallimento del tavolo al Mimit e sciagurato ridimensionamento del fondo a sostegno dell’automotive deciso dal governo Meloni con la legge di bilancio”, riassume su X Antonio Misiani, responsabile Economia nella segreteria nazionale del Pd (vedi foto sotto).
Riguardo al taglio di 4,6 miliardi di euro al Fondo automotive, destinato all’adozione di misure a sostegno della riconversione della filiera, il ministro Urso assicura che “tutte le risorse andranno sul fronte degli investimenti produttivi con particolare attenzione alla componentistica, che è la vera forza del Made in Italy”, facendo capire di voler spostare gli aiuti dalla domanda (incentivi) all’offerta, in barba all’intenso lavoro del Tavolo sviluppo automotive.
Questa decisione fa paura, così come la fine degli ammortizzatori sociali in alcune realtà dove le ore di cassa integrazione in sette mesi sono risultate pari al doppio della media nazionale, cioè in Piemonte. Tanto che la provincia di Torino è diventata la più cassaintegrata d’Italia dopo Milano e Napoli, con quasi 17 milioni di ore. “Non c’è consapevolezza dei rischi che stiamo correndo”, dichiara il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, riferendosi in particolar modo ai possibili effetti che tali decisioni avranno sull’occupazione.
Il cataclisma occupazionale
Il problema dell’automotive si palesa in Italia con il licenziamento di 31 dipendenti della Psa Pipes di Nichelino, piccola azienda torinese che opera nel settore automotive, ma anche con le difficoltà di aziende un po’ più grandi come la Te Connectivity di Collegno, che produce connettori automotive, e che dava lavoro a 222 persone. O come la Denso Thermal Systems di Poirino, specializzata nella produzione di sistemi di condizionamento per auto, che prevede 150 esuberi su 700 lavoratori.
Nell’indotto solo in Piemonte sono a rischio 10mila posti di lavoro, più di un lavoratore su due della componentistica auto locale, un quarto di quella nazionale. Stellantis a parte i lavoratori in cassa integrazione sono più di 6mila in 25 aziende. Cassa integrazione che ad esempio sta per finire alla Lear, che produce sedili e interni delle Maserati, mettendo a rischio il futuro di 390 lavoratori.
L’epidemia potrebbe colpire presto anche Torino, cuore pulsante del settore auto italiano, falcidiando un comparto che conta oltre 2mila imprese, che fattura 55 miliardi di euro l’anno e che conta oltre 166mila lavoratori. Lo stesso Tavares non ha escluso licenziamenti per rilanciare Stellantis mentre a Mirafiori quasi 3mila persone sono in cassa integrazione. Negli ultimi due anni circa 2mila dipendenti hanno lasciato lo stabilimento con esodi incentivati. Basti sapere che a Mirafiori oggi i lavoratori totali sono 10mila e che dieci anni fa erano il doppio. E questa è solo la punta dell’iceberg, perché se non si inverte la rotta presto o tardi potremmo assisteremo a un “cataclisma occupazionale”, tanto per usare le parole pronunciate dalla consigliera regionale del Veneto, Laura Cestari, in riferimento alla crisi che sta investendo il gruppo metalmeccanico Berco di Polesella (Rovigo) e che potrebbe lasciare a casa circa 500 lavoratori.
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