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“Egitto e Bangladesh non sicuri” #finsubito richiedi mutuo fino 100%


Botta e risposta. I magistrati di Catania semplicemente ignorato il decreto con cui il governo ordinava di considerare Egitto e Bangladesh Paesi sicuri. Hanno infatti dichiarato illegittima la richiesta di trattenimento nei centri a carico di tre egiziani e due bengalesi che hanno richiesto lo stato di rifugiati giustificando la decisione con la constatazione che “la lista dei Paesi sicuri” contenuta nel provvedimento non esime il giudice “dall’esame della compatibilità” di questa “designazione con il diritto dell’Unione europea”. E in quei due Stati “ci sono gravi violazioni dei diritti umani”. Insorge la maggioranza: a dare il la, Matteo Salvini. “Per colpa di alcuni giudici comunisti che non applicano le legge il Paese insicuro è ormai l’Italia. Ma noi non ci arrendiamo”. Netti gli azzurri: “Assisto esterrefatto all’uso politico della giustizia: nessun paese è sicuro, neppure Catania”, tuona il capo dei senatori di FI, Maurizio Gasparri. E FdI, con Lucio Malan, avverte: “Si tratta di giudici ideologizzati che vorrebbero impedire ogni contrasto all’immigrazione illegale di massa e alla possibilità di rimpatriare chi entra illegalmente in Italia”. Reazioni di prammatica, come la rabbia del governo: stando ai giudici – il ragionamento a Palazzo Chigi – dovremmo tenerci tutti gli irregolari in Italia. Ma così non può andare”.

E la reazione vera non si fa attendere: la decisione verrà impugnata subito dall’Avvocatura dello Stato alla Corte d’appello che, a norma di decreto, dovrà rispondere entro 10 giorni. Peraltro: piove sul bagnato. Perché il tribunale di Roma, sulla scia di quello bolognese, nelle stesse ore, ha sospeso l’efficacia del diniego della richiesta d’asilo di uno dei 12 migranti che erano stati trasferiti in Albania, inviando il nuovo decreto alla Corte di giustizia europea.

In questo quadro, Giorgia Meloni cerca non di disinnescare il conflitto, “non arretreremo di un millimetro” avverte, ma di circoscriverlo a braccio di ferro con una parte “politicizzata” della magistratura e non con tutto il potere togato. La premier cerca di separare l’accusa di attentare all’indipendenza dei giudici dallo specifico settore in cui si sta combattendo la battaglia in questi giorni; per questo ieri pomeriggio ha incontrato il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, una mossa non concordata con il Quirinale, dove a sera filtravano stupore e irritazione. Al termine del faccia a faccia, il comunicato di Palazzo Chigi parla di una visita che “si inserisce nell’ambito di una proficua e virtuosa collaborazione, nel rispetto dell’autonomia delle differenti istituzioni”. Missione che però difficilmente avrà successo, dal momento che il governo spinge in Parlamento per la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che le toghe, a torto o a ragione, considerano un attentato alla loro indipendenza.

Tant’è: le nuove liti si sommano e si intrecciano a quelle già divampate e diventa difficile districarsi nel labirinto di ricorsi e sentenze. La situazione probabilmente inizia a diventare esasperante persino per Giorgia Meloni che interrogata per la centomillesima volta sull’Albania sbotta: “Ancora? Avete la fissazione…”.

Ma l’elenco è destinato ad allungarsi. Ieri la nave Libra, dopo il flop del primo viaggio, ha recuperato in mare un altro piccolo gruppo di richiedenti asilo. Dopo il primo screening a bordo, saranno trasferiti a Schengjin per essere sottoposti alla procedura accelerata di frontiera. Non occorrono doti divinatorie per prevedere che anche in questo caso i magistrati di Roma ordineranno il rimpatrio in Italia. Cosa succederà, allora? Verranno impugnate come altre dall’esecutivo… Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, dà mostra di una calma olimpica: “Tutte le questioni di diritto sono opinabili nell’ambito giudiziario. Il progetto Albania proseguirà. Nel 2026 entrerà in vigore un regolamento europeo al quale l’Italia dovrà attenersi”. Il governo spinge per accelerare il varo: non c’è dubbio che nell’attesa il poco sensato minuetto proseguirà fino a quando la Corte di giustizia europea non dirà una parola definitiva.

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