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Nuovo Giornale Nazionale – IL SALARIO MINIMO GARANTITO, UN VANTAGGIO O NO? #finsubito prestito immediato


di Marco Palombi

Durante una recente trasmissione televisiva, ho avuto l’opportunità di confrontarmi sul tema del salario minimo garantito con una figura politica di spicco, nota per il suo lungo impegno nel campo sociale e nella politica di sinistra. In quella sede, l’argomento ruotava attorno alla possibilità di introdurre questa misura in Italia, seguendo l’esempio di Francia e Germania, dove è già operativa. La posizione del mio interlocutore era chiara e diretta: l’introduzione del salario minimo garantito rappresenterebbe uno strumento fondamentale per tutelare la dignità economica dei lavoratori e contrastare le disuguaglianze.

Cos’è il salario minimo garantito?

Il salario minimo garantito è una soglia salariale al di sotto della quale un datore di lavoro non può retribuire i propri dipendenti. In pratica, è un intervento normativo che stabilisce un limite minimo di retribuzione oraria o mensile, concepito per garantire un livello di vita dignitoso e ridurre il rischio di sfruttamento nel mercato del lavoro. In Europa, il salario minimo varia per modalità e livelli:

– Francia: Ha introdotto il salario minimo negli anni ’70 con il SMIC (Salaire Minimum Interprofessionnel de Croissance), aggiornato periodicamente per riflettere il costo della vita e la crescita economica. Attualmente, il SMIC è fissato a circa 11,52 euro all’ora (2023).

 

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– Germania: Ha adottato il salario minimo solo nel 2015, portando la retribuzione minima a 12 euro all’ora dal 2022, con l’obiettivo di bilanciare i benefici per i lavoratori con la sostenibilità per le imprese.

La proposta di introdurre un salario minimo in Italia mira dunque a seguire un modello già sperimentato in altri Paesi europei. Tuttavia, la domanda chiave è: in un contesto come quello italiano, con livelli di produttività inferiori e una struttura economica diversa, questa misura può realmente portare benefici alla popolazione lavorativa o rischia di generare effetti collaterali inattesi?

Permettetemi di inserire un elemento di riflessione[i]

Nel contesto economico classico, i fattori di produzione sono gli elementi fondamentali per la produzione di beni e servizi. Adam Smith e David Ricardo, i principali esponenti della teoria economica classica, definirono i tre fattori principali: lavoro, capitale, e terra (spesso interpretata oggi come risorse naturali o know-how), considerati la base su cui si fonda ogni economia.

Lavoro: secondo Smith e Ricardo, il lavoro è l’elemento primario, quello che trasforma risorse grezze in beni utili, conferendo valore. Smith, in La Ricchezza delle Nazioni, evidenziava il ruolo centrale del lavoro nella creazione del valore economico, sostenendo che la produttività del lavoro aumenta con la divisione e specializzazione delle attività produttive​. In una visione moderna, il lavoro non è solo forza fisica ma include competenze, esperienza e capacità creative, fondamentali per migliorare la qualità e l’efficienza della produzione​

.

Il capitale è il secondo fattore di produzione, necessario per acquistare attrezzature, strumenti e infrastrutture. Ricardo, con la teoria del capitale fisso e circolante, sottolineava l’importanza di questo fattore per sostenere la produttività del lavoro. Il capitale fisso si riferisce a beni come macchinari e impianti industriali, mentre quello circolante comprende risorse consumabili, come materie prime e componenti. John Stuart Mill approfondì l’importanza del capitale nella crescita economica, sottolineando che gli investimenti in attrezzature e infrastrutture aumentano la capacità produttiva di una nazione​.

Know-How: il know-how è l’insieme di conoscenze tecniche e tecnologiche che potenziano la produttività. La conoscenza e l’innovazione, evidenziate nelle teorie di Joseph Schumpeter, diventano leve fondamentali per migliorare il rendimento economico e sostenere la competitività. Schumpeter vedeva l’innovazione come un motore di crescita, attribuendo al know-how il potere di trasformare l’intero sistema produttivo grazie a progressi tecnologici e miglioramenti dei processi produttivi​.

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Negli ultimi decenni, l’evoluzione dei mercati e delle tecnologie ha ampliato il concetto classico dei fattori di produzione, integrando la tecnologia e il capitale intangibile (R&S e formazione) come elementi distintivi. Questi fattori influenzano la produttività del lavoro, rendendo le economie più avanzate capaci di sostenere salari più alti.

La produttività del lavoro, misurata come il valore generato per ogni ora lavorata, è un indicatore fondamentale della competitività economica e della capacità di crescita di un Paese. Tuttavia, il livello di produttività dipende strettamente dalla disponibilità e dall’efficienza con cui vengono combinati altri due fattori di produzione: capitale e know-how.

Questa dipendenza è evidenziata da numerose teorie economiche e dagli studi contemporanei sui trend di produttività in Europa.

Il capitale, sotto forma di macchinari, infrastrutture e risorse finanziarie, è cruciale per ampliare la capacità produttiva. Senza adeguati investimenti in capitale, la produttività del lavoro rischia di stagnare. Germania e Francia, ad esempio, vantano elevati livelli di capitale fisico e intangibile (come il capitale umano e tecnologico), che permettono ai loro lavoratori di produrre di più per ora rispetto all’Italia. In Germania, la produttività è anche sostenuta da un sistema di formazione professionale che prepara i lavoratori a utilizzare tecnologie avanzate, generando un vantaggio competitivo.

Il know-how, che include conoscenze tecniche, capacità professionali e innovazione, è altrettanto determinante per la produttività. La teoria economica moderna, influenzata da autori come Schumpeter, evidenzia come l’innovazione tecnologica e l’apprendimento continuo siano fattori essenziali per migliorare l’efficienza dei processi produttivi.

In Francia, ad esempio, programmi di aggiornamento e politiche di formazione incentivano lo sviluppo delle competenze digitali e tecniche, migliorando la produttività del lavoro e favorendo l’adozione di innovazioni in vari settori.

La sottocapitalizzazione è una delle maggiori sfide per le aziende italiane, in particolare le piccole e medie imprese (PMI), che costituiscono la colonna portante del tessuto economico nazionale. La mancanza di capitale proprio limita infatti la capacità delle imprese, in particolare delle PMI, di offrire garanzie adeguate per ottenere finanziamenti a medio e lungo termine. Secondo la teoria economica, il capitale proprio serve come base per sostenere l’indebitamento: senza una base di capitale sufficiente, le aziende vengono percepite come più rischiose, riducendo così la disponibilità delle banche a concedere prestiti.

Le imprese italiane, per lo più di piccole dimensioni e con risorse finanziarie limitate, spesso non dispongono del capitale necessario per investire in innovazioni tecnologiche e competenze avanzate.

Con i requisiti imposti dai trattati di Basilea, che vincolano le banche a mantenere adeguati livelli di capitale per coprire i rischi creditizi, le imprese sottocapitalizzate subiscono ulteriori limitazioni. Le banche devono essere particolarmente prudenti nella concessione del credito, richiedendo alle imprese garanzie e riserve adeguate, che le PMI italiane spesso non riescono a fornire. Di conseguenza, la sottocapitalizzazione diventa un circolo vizioso: le aziende, con meno risorse di capitale proprio, non possono accedere ai finanziamenti necessari per investire in crescita e innovazione.

L’accesso al credito, gioca un ruolo cruciale nell’approvvigionamento efficiente di materie prime e nell’accesso ai mercati di sbocco. Le aziende con adeguata disponibilità di credito possono mantenere flussi di produzione più continui e scalabili, ottimizzando i tempi di approvvigionamento e le quantità acquisite, spesso a costi ridotti grazie a sconti per ordini di grandi dimensioni o a condizioni di pagamento favorevoli

Un adeguato livello di finanziamento supporta le imprese anche nell’espansione e nella gestione dei canali di distribuzione verso i mercati di sbocco. Per molte imprese, specialmente le PMI, l’accesso al credito permette di affrontare spese di marketing e logistica, necessarie per posizionarsi su mercati più competitivi, sia a livello nazionale che internazionale. Senza il supporto di finanziamenti esterni, molte aziende italiane non riescono a coprire questi costi, limitando la propria capacità di espandersi e di raggiungere nuovi clienti, un fattore che incide sulla crescita complessiva della produttività e della competitività.

In questo panorama, l’investimento in R&S è di difficile ritorno economico.  Senza finanziamenti, le imprese italiane sono costrette a limitarsi a processi produttivi tradizionali, riducendo la possibilità di migliorare l’efficienza e la produttività del lavoro rispetto a Paesi come Germania e Francia, che possono sostenere più facilmente innovazione e sviluppo tecnologico.

Tutto questo si riflette quindi sulla produttività del lavoro, più alta nei nostri concorrenti d’oltralpe che da noi.

 

L’introduzione del salario minimo garantito sembra una misura volta a garantire un livello di vita dignitoso ai lavoratori, stabilendo una soglia minima di retribuzione oraria o mensile al di sotto della quale le aziende non possono scendere. Tuttavia, affinché il salario minimo sia sostenibile, è necessario che il valore prodotto dal lavoratore (la sua produttività) sia sufficiente a coprire il costo di questo salario. Se la produttività del lavoro è insufficiente, il datore di lavoro non sarà in grado di coprire i costi, rendendo non conveniente l’assunzione di lavoratori per ruoli a bassa produttività.

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Nei Paesi con alti livelli di produttività, come Germania e Francia, il salario minimo trova una base economica più solida. L’elevata produttività dei lavoratori consente infatti alle imprese di assorbire i costi del salario minimo, mantenendo competitività e redditività. Questi Paesi beneficiano di una combinazione di know-how, innovazione e accesso al capitale che potenzia l’efficienza lavorativa, permettendo di sostenere retribuzioni più alte.

In Italia, invece, il basso livello di produttività del lavoro, dovuto a una combinazione di fattori tra cui sottocapitalizzazione e limitato accesso al credito per la R&S, rende difficile il mantenimento di un salario minimo sostenibile su larga scala. La produttività per ora lavorata in Italia è circa il 35% inferiore a quella tedesca, rendendo rischioso per le imprese assumere a salari minimi elevati.

Per le aziende, assumere un lavoratore a un salario minimo senza una produttività che copra il costo potrebbe risultare in una perdita economica, portando all’esclusione dal mercato del lavoro di quelle persone il cui apporto non risulta sufficiente.

Se la produttività non riesce a compensare il salario minimo, le aziende sono incentivate a ridurre le assunzioni per quei ruoli in cui la resa non giustifica il costo.

Questo fenomeno potrebbe avere conseguenze particolarmente dannose per i lavoratori meno qualificati o impiegati in settori a bassa produttività, che verrebbero progressivamente esclusi dal mercato del lavoro, aumentando la disoccupazione strutturale.

La questione del salario minimo garantito, più che una semplice misura di giustizia sociale, dovrebbe quindi stimolare una riflessione profonda sull’economia italiana.

Se l’intento è di proteggere i lavoratori, è indispensabile considerare se la nostra economia possa realmente sostenere il costo di tale misura.

Prima di seguire l’esempio di altri Paesi, forse dovremmo chiederci: a chi giova davvero introdurre un salario minimo se non siamo in grado di assicurarne la sostenibilità produttiva?

Ogni politica, per funzionare, deve radicarsi nella realtà economica che la sostiene; altrimenti, rischia di essere un atto di mera emulazione privo di efficacia per chi, in teoria, dovrebbe trarne vantaggio.

 

[i]  Bibliografia ragionata

– Mill, J.S., 1848. Principles of Political Economy. London: Longmans, Green, and Co.

–  Ricardo, D., 1817. On the Principles of Political Economy and Taxation. London: John Murray.

– Schumpeter, J.A., 1934. The Theory of Economic Development. Cambridge: Harvard University Press.

– Smith, A., 1776. An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations. London: W. Strahan and T. Cadell.

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–  OECD, 2021. OECD Compendium of Productivity Indicators 2021. Available at: https://www.oecd-ilibrary.org/economics/oecd-compendium-of-productivity-indicators-2021_300348dc-en .

– European Central Bank, 2021. Key factors behind productivity trends in euro area countries. Economic Bulletin, Issue 7. Available at: https://econpapers.repec.org/RePEc:ecb:ecbart:2021:0007:2

– Banca d’Italia, 2023. No. 825 – A structural analysis of productivity in Italy: a cross-industry, cross-country perspective. Available at: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2023-0825.html .

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