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Poste Italiane, il rinvio della vendita del 14%: un assegno in bianco da 2,5 miliardi per i conti pubblici – #finsubito prestito personale immediato – Richiedi informazioni


di
Francesco Bertolino

Investitori internazionali, fondazioni e casse e/o risparmiatori? Sulla nuova tranche l’attesa del mercato è alta e la discussione aperta. Intanto Del Fante guarda al wealth management

Data di consegna non disponibile: il rinvio senza data della discesa del Tesoro nel capitale di Poste Italiane sta assumendo i contorni di un giallo politico-finanziario. L’operazione rientra nel piano di privatizzazioni da cui il governo conta di incassare 20 miliardi entro il 2026, da utilizzare per ridurre il debito pubblico. Attualmente, fra il 35% Cassa Depositi e Prestiti e il 29,3% del ministero delle Finanze, circa il 65% di Poste è in mano pubblica; un decreto di marzo consentiva allo Stato di scendere fino al 35% attraverso una procedura aperta al grande pubblico ma dai tempi lunghi oppure tramite vendite accelerate sul mercato rivolte ai soli grandi fondi per velocizzare, alla bisogna, i tempi di incasso. Dopo le polemiche politiche e sindacali, però, un secondo provvedimento dell’esecutivo di settembre ha elevato la soglia al 50%. 

La procedura

A quel punto, anche se la tabella di marcia non è mai stata ufficializzata, sembrava tutto pronto per la vendita di circa il 14% di Poste, quota che, ai corsi attuali di Borsa, avrebbe fruttato un incasso di circa 2,5 miliardi. Alla metà di ottobre, l’avvio dell’offerta sul mercato pareva imminente, con tutti i preparativi completati: la scelta di 11 banche collocatrici, i contatti con i grandi fondi internazionali di investimento, la predisposizione della possibilità per i dipendenti del gruppo e i piccoli risparmiatori di comprare i titoli anche attraverso il sito web e l’app di Poste. Poi, improvviso, è arrivato l’ordine del Tesoro alle banche – «Posporre l’operazione» – senza alcuna spiegazione di ordine tecnico, finanziario o politico.




















































La manovra dei «sacrifici»

Il silenzio del governo ha scatenato una ridda di ipotesi riguardo alle ragioni del rinvio. Qualcuno immagina che il Tesoro non voglia far coincidere la nuova privatizzazione di Poste — e il relativo incasso di 2,5 miliardi — con la discussione parlamentare della manovra «dei sacrifici», per evitare il rischio di assalti alla diligenza, e stia attendendo anche gli esiti del concordato fiscale, sinora deludenti. Altri sostengono invece che l’interruzione temporanea del processo sia figlia delle volontà di rivedere la struttura del collocamento, come sembra suggerire anche la nota a proposito di Poste che fa riferimento a «decisioni e valutazioni in corso riguardo alle modalità e ai tempi dell’offerta».

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Il peso del retail

Rispondendo all’opposizione che la accusava di vendere pezzi pregiati del Paese a fondi internazionali come BlackRock, del resto, la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha sottolineato che il governo sta ragionando sulla «cessione di una quota abbastanza minoritaria di Poste, dedicata esclusivamente ai retailer, i piccoli risparmiatori italiani e ai dipendenti». Parole che sembrano preludere, perlomeno, a un aumento della quota di Poste riservata al retail rispetto al 30-35% immaginato dagli analisti. Se non, addirittura, a un’esclusione dei grandi investitori internazionali, che comporterebbe però il probabile ridimensionamento dell’offerta al di sotto del 14% e sarebbe in contraddizione con il mandato per il collocamento affidato dal Tesoro a 11 banche, italiane ed estere.

L’italianità

Gli esegeti delle parole della premier ritengono quindi di doversi soffermare soprattutto su un’altra parte delle dichiarazioni di Meloni alla Camera: «Poste in ogni caso deve rimanere nelle mani degli italiani, ecco come il governo si sta muovendo: perché a differenza di quello che abbiamo visto fare spesso in questa Nazione, non intendiamo svendere niente dei gioielli di famiglia». In vista della nuova privatizzazione di Poste, infatti, il governo avrebbe allacciato contatti con le fondazioni di origine bancaria e con le casse di previdenza per creare un nocciolo duro di investitori italiani. 

Il ruolo delle fondazioni bancarie

Diversi enti sarebbero in effetti interessati all’operazione: Poste è del resto in grado di assicurare un dividendo rilevante e regolare – oltre 6,5 miliardi previsti fra 2024 e 2028 – l’ideale per le fondazioni che impiegano le cedole staccate dalle partecipate per alimentare le loro attività sul territorio. Il dossier sarebbe così al vaglio di Cariplo, Firenze, Lucca e Cuneo; alla finestra vi sarebbe anche la Compagnia di San Paolo. La loro valutazione richiederà, tuttavia, tempo perché le Fondazioni sono ora impegnate nella programmazione per il 2025. A quanto filtra, comunque, il governo non starebbe premendo per accelerare l’iter. Né, in ogni caso, l’investimento di qualche centinaio di milioni da parte degli enti di origine bancaria sarebbe sufficiente a coprire l’eventuale intera offerta da 2,5 miliardi da parte del Tesoro.

La finestra di novembre

Resta insomma il nodo eminentemente politico: aprire o no agli investitori internazionali? Il tempo per scioglierlo non è molto se l’intenzione è di procedere al collocamento entro la fine del 2024. È possibile, si ipotizza, che l’offerta prenda corpo tra il 20 novembre e la prima decade di dicembre, l’ultima finestra disponibile dell’anno. Di mezzo, intanto, ci sono le presidenziali negli Stati Uniti del 5 novembre, i conti dei nove mesi di Poste il 6 novembre e il pagamento del dividendo da parte del gruppo il 18 novembre, cosa che non blocca l’operazione ma ne complica i calcoli, specie per il retail. Giorno dopo giorno, così, nel silenzio del governo, sul mercato si fa strada l’ipotesi che l’operazione possa essere rinviata al 2025.

Il record in Borsa

L’incertezza non sta comunque condizionando l’andamento di Poste in Borsa. Il gruppo ha guadagnato il 44% nell’ultimo anno, toccando pochi giorni fa i 17,1 miliardi di capitalizzazione, un record. Gli analisti sono fiduciosi sui conti del prossimo trimestre e, più in generale, sulla strategia industriale impostata dall’amministratore delegato, Matteo Del Fante. Attorno alla rete di 13 mila uffici postali sparsi sul territorio, negli oltre sette anni di mandato alla guida del gruppo il manager ha costruito un ecosistema di servizi che spazia dalle assicurazioni ai pagamenti, dall’identità digitale alla telefonia, dalla vendita di energia alla gestione del risparmio. 

La gestione del risparmio

Settore, quest’ultimo, in cui Poste ha grandi ambizioni di crescita. Le attività finanziarie investite dagli oltre 35 milioni di clienti ammontano a 581 miliardi, ma l’obiettivo del gruppo è arrivare a 624 miliardi entro il 2028, puntando soprattutto sulla consulenza agli utenti più facoltosi.
Poste ha insomma diversificato notevolmente le attività oltre il servizio postale — che effettua 256 milioni di consegne all’anno — per trasformare la società in una piattaforma di servizi, secondo il modello imperante nell’economia digitale e più apprezzato dal mercato. Che è pronto a fare la sua parte, se e quando il governo deciderà di incassare l’assegno di Poste.

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29 ottobre 2024

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