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Guinea: gli affari prima della politica (e di Aes) #finsubito prestito immediato


La giunta militare guidata da Doumbouya coltiva buoni rapporti con i regimi golpisti di Aes, anche se è restata nel campo di Cedeao e Francia. L’economia in crescita grazie ai prezzi alti della bauxite, suo principale bene minerario, gli aggiunge credito internazionale. Ma la stabilità del paese è tutt’altro che garantita. Contro le continue manifestazioni di piazza, il pugno duro non può risolvere tutti i problemi alla giunta

Strana traiettoria quella della Guinea Conakry degli ultimi 3 anni. Nel 2021, l’allora colonnello (oggi generale) Mamady Doumbouya ha fatto il suo bel golpe, secondo l’ultima moda dei colpi di stato in Africa occidentale: rovesci il presidente incancrenito al potere, polemizzi con la democrazia occidentale, critichi il neo-colonialismo francese.

Con un canovaccio del genere, l’intesa con le vicine giunte militare di Mali e Burkina Faso sembrava cosa fatta. Insieme formavano un trio di paesi in cui le autorità militari avevano preso il potere tramite colpo di stato tra il 2020 e il 2022. 

La breve intesa tra giunte militari

Con il vento golpista in poppa, i Ministri degli esteri dei tre stati si erano ritrovati nel febbraio 2023 a Ougadougou, per un primo tentativo di coordinamento formale. Poi da cosa doveva nascere cosa. 

E invece no. La loro relazione speciale si interrompe di lì a poco. Per la precisione, nel luglio dello stesso anno, con il golpe in Niger guidato da Abdourahamane Tiani. La Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao, o Ecowas nel suo acronimo inglese) chiede come al solito il ripristino del presidente rimosso, ma stavolta cambia tono. Dopo aver assistito con relativa impotenza a cinque colpi di stato in due anni in Africa occidentale (2 in Mali, 2 in Burkina e 1 in Guinea Conakry), ora fa la voce grossa e minaccia l’intervento armato contro i golpisti nigerini. Il Mali e il Burkina – che fanno formalmente parte della Cedeao – corrono in soccorso del loro collega Tiani. Lo fanno mediante un comunicato congiunto in cui si dicono pronti a intervenire in sua difesa in caso di attacco della Cedeao. 

Doumbouya non partecipa. Preferisce defilarsi dal confronto diretto con l’organizzazione regionale. Alla fine, la minaccia di aggressione si rivela per quel che è: un bluff. A spuntarla sono Bamako e Ouagadougou, mentre la credibilità della Cedeao ne esce fuori ancora più claudicante di quanto già non fosse. 

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Aes a distanza

Quella crisi nel luglio-agosto 2023 rimane l’atto di nascita informale del patto tra Mali, Burkina Faso e Niger. A settembre dello stesso anno i tre paesi mettono su carta la loro intesa. Nasce l’Alleanza degli stati del Sahel, meglio nota con l’acronimo di Aes. Conakry ne rimane fuori. 

Da lì ad oggi, i suoi rapporti con il trio sono rimasti cordiali, ma le strade si sono divise. Seppur con variazioni da stato a stato, i tre di Aes hanno annunciato la loro uscita dalla Cedeao, messo alla porta i francesi e abbracciato la Russia. 

Strategia differente per Doumbouya. Da un lato ha continuato a tuonare contro il fallimento conclamato della democrazia liberale in Africa, come nella sua arringa, molto mediatizzata, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2023.

Dall’altro ha mantenuto buoni rapporti sia con i francesi che con la Cedeao. A proposito di quest’ultima, lo scorso maggio, il Primo ministro guineano Bah Oury ha esplicitato la scelta di campo del suo paese, dichiarando a Jeune Afrique che non c’è nessuna intenzione di uscire e che anzi «vogliamo rinforzarla perché sia al passo con i tempi attuali». Una presa di posizione che ha posto fine alle speculazioni sulla possibilità per la Guinea di aggiungersi ad Aes. 

Nella stessa intervista Bah, ha anche sposato la linea diplomatica attuale della Cedeao nei confronti della neonata alleanza saheliana, ovvero proporre l’inclusione di Aes come sotto-organizzazione al suo interno. Dal punto di vista formale, è una mossa possibile: niente impedisce ad alcuni stati membri del blocco regionale di formare altri gruppi tra di loro, come già accade per varie istituzioni. Dal punto di vista politico, la situazione è più sensibile. Difficile pensare che Aes possa rientrare nella Cedeao finché continua a vederla come una propaggine del neocolonialismo occidentale da cui intende emanciparsi. 

Perché la Guinea resta fuori da Aes

Cosa ha spinto la giunta di Doumbouya a smettere di seguire l’esempio dei vicini regionali? Da un punto di vista economico, una ragione forte c’è. Alessandro Locatelli, economista della Fondazione ICSA, spiega a Nigrizia che «a differenza dei tre paesi di Aes, la Guinea ha uno sbocco sul mare. Il porto di Conakry è tra i più importanti del Golfo di Guinea [che si estende dal Senegal all’Angola, ndr]. Per dare un’idea della sua rilevanza: è il primo punto di arrivo delle merci che arrivano dal Sud America e vanno in tutto il Sahel. Passano per il suo porto anche le materie prime guineane (fondamentali per il paese) e quelle dei vicini. Con una vocazione commerciale così forte, isolarsi dalla Cedeao (che è soprattutto un’organizzazione del commercio) e avvicinarsi ai Russi, più per ragioni ideologiche che economiche, è particolarmente difficile».

Quando la Francia fa comodo 

Un’altra differenza principale con le giunte di Aes riguarda le relazioni con la Francia, che Doumbouya non ha mai messo veramente in discussione. Come riportato in una nota del Dipartimento del Tesoro Francese, gli scambi commerciali tra i due paesi sono arrivati a 206 milioni di dollari nel 2023. Che corrisponde a + 2% rispetto all’anno precedente e, dato più importante, + 61% rispetto alla media annua del periodo 2015-2021 (quindi i 6 anni prima dell’ultimo golpe). 

La scelta di Doumbouya non sembra derivare tanto da motivi biografici (è un ex-legionario francese ed è sposato con una donna francese), quanto dalla convenienza economica e politica di mantenere un partner strategico di peso quale è la Francia. Come a dire: una volta che si decide di non tagliare i ponti con Parigi (al pari di quanto fatto da Mali, Burkina e Niger) tanto vale farci affari. 

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Le buone relazioni economiche vanno di pari passo con quelle politiche. Su questo fronte, un buon termometro è offerto dallo status della Guinea all’interno dell’Organizzazione Internazionale della francofonia (Oif). Che ufficialmente promuove i legami culturali tra i paesi francofoni nel mondo, ma  che informalmente serve anche ad altro. Per dirla con le parole del giornalista francese e africanista Antoine Glasier, «l’Oif è sempre stata uno strumento diplomatico della Francia». 

Conakry ne fa parte, anche se era stata sospesa a seguito del golpe del 2021. Ma il 24 settembre è arrivata la riammissione, che l’Oif ha spiegato come un modo «di esprimere la sua solidarietà con questo paese membro», invitando comunque la giunta militare a «proseguire i suoi sforzi sul lato dei diritti e delle libertà». 

Il tetro bilancio in diritti civili

A quali ‘’sforzi’’ ci si riferisca, rimane un mistero. La presidenza Doumbouya vanta un solido curriculum in fatto di repressione dei media e dell’opposizione. Solo per citarne alcuni: chiusura delle radio private critiche del regime; divieto a tutte le manifestazioni ostili alla giunta; scioglimento del Fronte nazionale per la difesa della costituzione (Fndc), il principale movimento politico dell’opposizione. Per dare un’idea dell’aria che tira: due responsabili del Fndc sono stati prelevati al loro domicilio il 9 luglio da forze speciali guineane. Da allora non se ne hanno più notizie e si ignora se siano vivi o morti. 

Il molto lento ritorno alla democrazia

Di grandi o piccoli sforzi non ne se vedono neanche su un altro fronte: quello del rispetto del calendario per il ritorno all’ordine costituzionale. Nell’ottobre 2022, la giunta di Doumbouya si era accordata con la Cedeao sulla durata di altri due anni per il regime di transizione militare e sul calendario elettorale da seguire. Da programma, la Guinea doveva organizzare un referendum costituzionale e delle elezioni presidenziali entro la fine del 2024. Invece, a inizio anno, verso marzo, il Primo ministro Bah ha iniziato a dire che il referendum lo si farà di certo come da programma, ma per le elezioni bisognerà attendere il 2025. 

La Cedeao ha assecondato. A parte mantenere la sospensione della Guinea come suo paese membro (lo stesso fa l’Unione Africana) non ha preso nuove iniziative. Ora, a meno di 3 mesi dalla fine dell’anno corrente, non si vede l’ombra del referendum. Mentre le autorità ufficiali continuano a dirsi convinte di farcela, varie voci indipendenti parlano di un inevitabile slittamento all’anno prossimo, argomentando che l’organizzazione di un voto del genere richiede circa 6 mesi.

E la Cedeao? Ha assecondato di nuovo.

In più, lontano sembrano i tempi in cui Doumbouya dichiarava (più volte) di non volersi candidare al ruolo di Presidente della repubblica nella futura Guinea democratica. A suo dire, avrebbe solo traghettato il paese nella fase di transizioni militare. Ma da qualche settimana, vari membri del governo e del suo entourage lo incoraggiano via media a candidarsi alle elezioni presidenziali. La ”carta di transizione’ stabilita dalle autorità militari vieta ad ogni membro della giunta di presentarsi, ma già che c’è una nuova costituzione da far approvare, l’occasione per cambiare le regole è dietro l’angolo. 

L’economia in corsa

La gestione Doumbouya sta avendo decisamente un bilancio più positivo sul piano economico. I principali indicatori dipingono un paese in crescita. Di recente la Banca africana di sviluppo ha descritto «un quadro nel complesso positivo». Tra il 2022 e il 2023, inflazione e debito pubblico sono diminuiti, mentre il PIL è cresciuto.

L’anno in corso ha visto delle difficoltà specifiche, legate a blackout elettrici (più diffusi del solito) e alla carenza di carburante (a seguito dell’esplosione di un deposito petrolifero nel dicembre 2023). Tuttavia nel complesso l’economia sta tenendo. 

Un futuro di ferro e un presente d’alluminio

A cosa si deve un risultato sorprendentemente positivo, soprattutto per un regime militare di transizione? Alcuni commentatori attribuiscono una parte del credito alle manovre economiche di Alpha Condé, il presidente rimosso dal golpe. Ma perlopiù, la risposta si trova nel sottosuolo guineano; il settore minerario assicura circa il 20% delle entrate del paese. In particolare la Guinea conta sulla bauxite (il minerale da cui si produce l’alluminio), di cui ha uno dei più grandi giacimenti al mondo. E a causa dell’aumento della domanda da parte di Cina e India, i profitti sono aumentati in modo significativo.

Una situazione al momento rosea, anche se presenta il tipico rischio di esposizione alla volatilità dei prezzi delle materie prime. Doumbouya sta anche  muovendo dei passi per diversificare le attività economiche e trasformare la bauxite in loco invece di esportarla solamente. Tuttavia al momento la sua carta principale per il futuro viene sempre dal settore minerario. Nella località di Simandou, nel sud-est del paese, si trova il più grande giacimento di ferro non sfruttato al mondo. Dopo 50 anni di stallo, il recente annuncio di una intesa tra società cinesi dovrebbe dare il via alle prime estrazioni a partire dal 2025. A pieno regime di produttività (previsto per il 2040), si prevede che la Guinea incassi 1 miliardo di dollari l’anno. Il che avrebbe un impatto non da poco su un paese con un budget annuale di circa 3,5/4 miliardi di dollari. 

La piazza bolle

Nonostante la collocazione internazionale stabile e l’economia in crescita, i rischi di tenuta per la Guinea non mancano e vengono soprattutto dal lato sociale. Le associazioni cittadine, i movimenti e l’opposizione sono scesi in strada più volte contro il regime militare. Tra il 2021 e il 2023, Amnesty International ha documentato la morte di almeno 47 manifestanti, a causa degli scontri con le forze dell’ordine.





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